di Piero Galli architettogalli@libero.it
Madre Gina Gamba ha vissuto da missionaria per 34 anni nello Zaire e 16 in Togo. L’ho incontrata nel dicembre 2011 nel suo ospedale, quello che ha aperto insieme alle consorelle: Hospital St. Joseph Dadja. Ora madre Gina non c’è più, scomparsa nel 2014. Morta lei, è morto anche l’ospedale costruito con fatica in tanti anni di missione. Le suore l’hanno chiuso perché sono rimaste in poche e mancano le risorse per andare avanti.
Inizio da qui la mia narrazione perché l’incontro con madre Gina è stato uno dei pochi momenti positivi del mio viaggio in Togo.
Prima di tutto, se dovessi fare l’elenco dei luoghi che ho visitato e delle cose che ho fatto laggiù, pensereste che ci ho passato un mese. Invece sono rimasto in Togo solo 5 giorni e, vi assicuro, non c’è spazio in un blog per raccontarveli tutti.
Tra i tanti episodi, vorrei parlarvi di uno, in particolare, che vi può dare un’idea del clima che ho vissuto.
Torniamo a madre Gina che oggi non c’è più: ospedale fatto di case sparse ad un solo piano, come baracche, ognuna dedicata ad un reparto ospedaliero, costruite nel tempo, piano piano, per curare la popolazione locale dell’entroterra, fra la capitale Lomè e la città di Atakpamè, dov’ero diretto. Da architetto, stavo andando a vedere il terreno sul quale costruire una nuova chiesa…
La visita all’ospedale di madre Gina strideva con quello che avevo appena visto partendo da Lomè: il nuovissimo complesso ospedaliero realizzato dai cinesi in un solo anno di lavoro.
Il lungo rettilineo che da Lomè va ad Atakpamè è l’unica arteria di traffico che percorre il Togo da sud a nord. È puntellata di moschee a distanza regolare, come da noi ci sono gli autogrill. Le ha fatte costruire il libico Gheddafi, ex re d’Africa, come premessa ai suoi aiuti finanziari.
Nella capitale c’erano solo un paio di vie asfaltate, ma, al tempo della mia visita, un cantiere enorme stava realizzando una megastrada per condurre al porto. Anche in quel caso il cantiere era cinese e mi dissero che la manovalanza veniva dalle carceri asiatiche.
La sosta da madre Gina, ad Almè, fu una deviazione voluta dal sacerdote svizzero che mi stava accompagnando al futuro cantiere. Di questo lo devo ringraziare di cuore.
Ma passiamo direttamente al giorno seguente, quando di buon mattino, con la stessa jeep, ci siamo mossi in direzione Todomè, sulle montagne a nord di Atakpamè.
Tra parentesi: un tempo non lontano, nei pressi di Atakpamè, c’erano gli ippopotami, ma mi hanno raccontato di averli sterminati per protestare contro il Governo. E con loro i leoni, le gazzelle, gli elefanti, ecc. Mi hanno detto che sono sopravvissuti solo serpenti e coccodrilli… e, aggiungo io, le zanzare della malaria.
A parte questo scempio della natura, Atakpamè è una bella città di medie dimensioni, fatta delle solite case basse africane, con un bel mercato centrale dove trovi qualsiasi cosa, soprattutto frutta di ottima qualità.
Prima della mia partenza per l’Africa immaginavo di trovare tanta natura, aria fresca da respirare e suggestivi tramonti. Non era esattamente così. La jeep imbarcava fumo dalla sua stessa marmitta e i camion o le auto davanti a noi ne aggiungevano del loro. Oltre al fumo da idrocarburi c’era naturalmente la polvere sollevata dal traffico. Ecco il motivo per cui il tramonto era un cerchio bianco nello smog. Ho avuto 5 giorni di tosse, anche di notte.
Mi avvicino al dunque, ma già vi ho un po’ configurato l’atmosfera.
La strada principale talvolta obbligava a bruschi rallentamenti per aggirare buche che erano crateri, forse di origine alluvionale. Della ferrovia tedesca costruita negli anni del colonialismo rimaneva qualche traccia qua e là, ma, a Togoland smantellato, nessuno si è più preso la briga di mantenerla in funzione.
Salivamo una irta strada fiancheggiata dal panorama di una immensa savana, priva di animali. “Per quelli ci sono i parchi nazionali” mi disse il prete al mio fianco.
E dopo una decina di ore, o poco meno, siamo giunti al bivio per Todomè, dove un grosso avvoltoio osservava il traffico dal tetto di una casa.
Al crocevia c’era anche il benzinaio che serviva un motorino, con una sorta di petrolio grezzo, da una tanica gialla. Proseguendo ancora qualche chilometro siamo giunti alla missione di Todomè. La trovate facilmente su internet. Una missione laica, di volontari affetti dal mal d’Africa.
Vi risparmio tutto il discorso sulla missione italiana a Todomè, per passare direttamente al rientro. Solo una cosa aggiungo, abbastanza emblematica: attraversata la città, che non è dissimile da Atakpamè, ma in una zona collinare più verde, siamo giunti in fondo alla strada, ovvero dove la via carrabile finisce. Lì, in piedi, all’ombra di un albero, una ragazzina seminuda, com’è normale in quei luoghi, stava messaggiando col suo telefonino. Sì perché può mancare il pozzo, può mancare la chiesa o la farmacia, ma anche nei posti più remoti, non manca mai il ripetitore per la telefonia mobile. Tutti i giovani hanno il loro buon telefonino. Benvenuti in Africa…
Comunque a Todomè il pozzo non manca, visto che gli abitanti ne avevano chiesto uno, gli italiani gliene hanno scavati 18.
Insomma, riprendiamo la via del ritorno.
Passati di fianco al garage, dove da anni è bloccata un’ambulanza di origine italiana (l’unica via sterrata di montagna non le consente di muoversi agevolmente né di raggiungere eventuali malati), ecco spuntare all’orizzonte un’auto che viene nella direzione opposta alla nostra.
Non si trattava di una vecchia auto come quelle viste fino ad allora, né di un camion o di un furgone della vodaphone (che mi potevo benissimo aspettare). Come un’astronave, sopraggiungeva una BMW nuova, ultimo modello. Per farvi un’idea, andate a vedervi la BMW serie 3 berlina, o coupé.
Ok, ma non so se vi è chiaro dove mi trovassi in quel momento. Nemmeno nella capitale avevo visto un’auto così. Ma là poteva starci. Ci sono i ministeri, gli uffici delle aziende… Invece ero nel centro del Togo che è nel centro dell’Africa, nei pressi di Todomè, che vi sfido a trovare su una mappa.
Ed ero in una jeep piena di fumo su una strada sterrata, piena di buche e sassi, che era l’unica via percorribile da un’auto.
Il prete accanto a me mi disse che l’auto era di giovani occidentali che, per fare un po’ i fighi con le ragazze del posto, si erano fatti arrivare il macchinone dall’Europa.
Ok, per portare un po’ su e giù un paio di ragazze e farle divertire: contattate le giovani donne via sms, prelevate dalle capanne di fango, caricate sull’astronave tedesca e portate a correre sull’unica strada fino all’avvoltoio e ritorno. “Fa parte della missione” mi dice il prete. “È il mal d’Africa“.
Forse solo io ci ho visto qualcosa di strano in questo episodio e in quelli che non racconto, perché, come vi ho detto, sono tanti… e mi hanno fatto male al cuore.
Allucinante… Ci sono un sacco di spunti in questo post da cui potrebbero derivare altrettanti approfondimenti.
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Dimenticavo: il benzinaio di cui parlo alla riga 43 è quella baracca nella foto. Benzina nei canistri gialli e miscela, o simile, in quello marroni…
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